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rom: il muro di ostrany

Ieri non c’era. L’hanno tirato su di notte, in fretta e furia, per non dare troppo nell’occhio. Il muro a Ostrovany. È una barriera grigia che corre nervosa tra le sterpaglie per un centinaio di passi, increspandosi oltre due metri d’altezza. L’hanno costruito per separare il centro del villaggio dalla sua periferia, segnando con la calce il confine fra le case abitate dai “bianchi”, 800 persone, e le baracche di mille concittadini rom.

È l’alba del 25 ottobre 2009 – tempo di champagne in Europa per l’anniversario di un altro muro, quello sgretolato vent’anni prima a Berlino – quando la suoneria dance del cellulare di Jarmila prende a ballare indiavolata. «Dobre den, Jarmila», una voce roca incalza dal profondo del telefono. «Buongiorno un accidenti, ecco un’altra levataccia», sospira la donna ancora a occhi chiusi mentre infila jeans da battaglia e un paio di stivali lunghi, quelli buoni per non affondare nel fango. Un tuffo dentro il maglione arancio girocollo, un filo di trucco.

Due baci ai bambini e una carezza scorbutica al marito che russa ancora di grosso. E via, su per i 50 km di statale che portano da Košice, la seconda città della Slovacchia, a Ostrovany, paesino di neanche 2mila anime nella regione di Prešov. L’ha chiamata di buon’ora un residente del villaggio per informarla della novità, dello steccato di cemento fiorito in una mattina d’autunno.

Jarmila scende dalla macchina in una nuvola di fumo, masticando – in una smorfia da cronista burbero che ne ha viste di tutti i colori – l’ultimo tiro dell’inseparabile sigaretta. Prende appunti, si reca in casa dei testimoni, o presunti tali, cerca di tenere a bada i bambini che – incuranti della tensione – le improvvisano attorno un caotico girotondo.

Ascolta la campana dei rom, che si lamentano che per loro non c’è un centimetro di strada asfaltata, ma il comune spende 13mila euro per erigere una colata di cemento pur di segregarli fisicamente. E sente anche quella del sindaco, che invece respinge le accuse di razzismo appellandosi al sacrosanto diritto alla sicurezza.

«Ripetuti furti nell’orto delle villette dei vicini, screzi degenerati in qualche parola di troppo e pure in aggressioni violente», Jarmila detta così, per telefono, il suo dispaccio alla collega Klaudia. A metà pomeriggio queste cronache diventano un lancio di agenzia. A tarda sera Monika legge la notizia sulle frequenze della radio. Il giorno dopo Etela va sul posto per documentare la storia con un video reportage. Le vicende locali di Ostrovany non sono più un fatto locale. Tutta la stampa nazionale ora è costretta a occuparsene, pro o contro, poco importa. Cronaca di uno scoop riuscito? Non proprio. Almeno non solo.

Nomadi della notizia. Jarmila è una caporedattrice, un mastino di razza del giornalismo, molto particolare. 45 anni, madre di due bimbi, orgogliosamente di etnia rom, è alla guida di Rómska tlacová agentúra, Roma Press Agency. Si tratta di un’agenzia stampa multimediale (web, tv, radio) e multilingue (slovacco, rom, inglese) che vuole raccontare l’universo dei gitani senza sconti ma anche senza pregiudizi. E non solo ai “gadsche”, i bianchi, ma agli stessi rom, spesso chiusi ermeticamente nei loro mondi.

Romska agentura è nata 10 anni fa sotto l’impulso di Kristina Magdolenova, una ricercatrice universitaria, non di origine rom ma di cuore gitano, come sostiene lei, che ha scelto un’informazione acquisita per strada piuttosto che coi trattati di sociologia, trasformando il Mecem, un centro di ricerca media, in un’agguerrita agenzia di stampa.

In due piccole stanze ai bordi del centro di Košice lavorano 6 persone, tutte – tranne Kristina – donne rom. E tutte sposate con figli. Jarmila Vanová è il boss operativo della squadra; Etela Matova, 29 anni, il volto seducente dei reportage televisivi; Klaudia Filikova, 40 anni, sta invece al desk, mentre Monika Sinuova, 26, e Viera Sandorova, 32, si occupano della registrazione dei programmi radio.

Visto che c’è speranza per tutti, le ragazze di Radio Rom hanno aperto le porte anche all’altro sesso, imbarcando Ladislav Rac, 21enne stagista. Il caffè bolle in continuazione nella redazione, un ufficio che più spartano di così non si può. Due tavolacci lunghi per scrivanie, una manciata di computer e un cucinotto. Sulle pareti i colori accesi dai dipinti di bimbi rom.

Quattrini per tirare avanti la baracca non ce ne sono molti. A tutti tocca fare lo straordinario, che poi è puro volontariato non retribuito. Il budget annuale è di 30mila euro, due volte il costo del muro di Ostrovany, tengono a precisare le giornaliste. Fino a qualche mese fa c’era anche un mensile cartaceo, con tanto di edizione in caratteri rom. Ma è stato chiuso per mancanza di fondi. E allora ci si arrangia.

Spiega Etela, l’unica del gruppo a suo agio anche con l’inglese: «Vendiamo i servizi alla televisione statale che ospita ogni settimana una nostra striscia di notizie e reportage. E così funziona per la radio, appoggiandoci per le attrezzature a service esterni. Tutta la produzione è online sul nostro sito. Pubblicità, poco o niente. È davvero dura, ma oggi per chi non lo è?».

Fuori (dal) campo. Intervistare giornalisti non è mai facile. Farlo con Jarmila, Etela, Monika e Klaudia è un’impresa. La loro agenda è una corsa contro il tempo, contro le barriere culturali, contro il salvadanaio sempre vuoto. C’è solo un’automobile per tutte e sei. Si spostano a piedi o in un pullman, in lungo e in largo per la Slovacchia orientale, andando di persona nelle 700 municipalità dove i rom superano il 20% della popolazione. E in alcune, come a Ostrovany, sono addirittura la maggioranza.

Se non vanno fuori per un servizio, le giornaliste sono in redazione a scrivere e confezionare servizi. Quando non lavorano, seguono l’ennesimo corso di aggiornamento all’università. Sembrano donne in carriera in stile newyorkese piuttosto che donne rom imprigionate nello stereotipo delle vittime tra le vittime. Uscire dai “ghetti” della Slovacchia – il 10% di 5 milioni di abitanti sono gitani perlopiù poveri, ai margini della società e appesi ai sussidi statali – è complicato. Ancora di più se si è donne, alle quali è destinato un matrimonio combinato e una vita a tirare su i figli.

Ma la società rom – spiegano le ragazze – non è un monolite come la si vede dal di fuori. «C’è invece un sistema di caste, di ricchi e di poveri e pure di intoccabili, l’ultimo gradino sociale. Anche se poi si vive tutti insieme in uno dei tanti casermoni fatiscenti».

All’interno dei quartieri a maggioranza rom infatti non mancano le famiglie con standard di vita “borghesi”. Le ragazze di Radio Rom hanno potuto studiare, emanciparsi, trovare un lavoro. Addirittura avventurarsi in una professione di prestigio come quella dell’informazione. «Sono diventata giornalista per caso – racconta Jarmila – grazie a un corso per migliorare l’integrazione delle donne rom. Ho badato ai miei figli fino ai 10 anni di età. Ora è tempo che ai ragazzi ci pensi mio marito».

“Riannodare i fili”. Un sondaggio-reportage di Romska agentura racconta che i rom slovacchi rimpiangono il socialismo reale. Lavoro per tutti, garanzie di una vita dignitosa. «Le cose non stanno proprio così» precisa Slavka Macakova, direttrice di Etp Slovenko, una ong che fa microcredito tra i rom e promuove l’autocostruzione delle case.

«Il comunismo ha travolto con la sua durezza le popolazioni nomadi obbligandole a diventare stanziali. C’era lavoro per tutti, è vero. Ma rigorosamente in fabbrica. E per chi non gradiva, l’unica alternativa era la prigione. Mentre l’antico sapere dei rom era nelle campagne, nell’allevare cavalli, tra i giostrai, i fabbri. Oggi, con le leggi del libero mercato, bisogna riannodare i fili della tradizione. Altrimenti la bolla sociale è pronta a esplodere».

Se parli con Jarmila e Etela di regime di apartheid, delle scuole differenziate per ragazzini con handicap in cui finiscono i bimbi rom «perché tanto per loro basta e avanza», della scarsa – se non nulla – partecipazione e rappresentanza politica, del confinamento nelle periferie senza elettricità e servizi igienici, loro non se la prendono con lo stato né con il libero mercato.

«Nel nostro paese la destra xenofoba è sempre più forte. Ma non si tratta di veri fascisti né razzisti. Hanno solo paura. Temono la minoranza ungherese, quella rom e quella dei sudeti. Un atteggiamento che ricorda certi clan rom chiusi in se stessi. Non c’è tanta differenza. E noi cerchiamo di informare. Diciamo che un ladro va punito per i suoi atti ma senza aggravante per il colore della sua pelle, per la sua cultura. Non c’è bisogno di discriminazione positiva, solo di pari opportunità».

Dalle finestre delle case rom di Ostrovany il panorama è ancora interrotto dal muro. «Il mio lavoro – dice Jarmila – non cambia le cose. Non sbriciola i muri. Ma sono convinta che sia utile. E che dentro quelle povere case ci sia qualche ragazzina che, osservandomi da quel davanzale, magari tra vent’anni racconterà da giornalista la grande festa per la caduta di quel muro».

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rom: il muro di ostranyultima modifica: 2010-03-23T23:25:00+01:00da
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