Il grido disperato di Sergio, suicida col fuoco.

DALLA NL DI CONTROLACRISI

Il grido disperato di Sergio, suicida col fuoco. Il grido disperato di Sergio parla a noi.      
02/02/2010 11:50 | LAVORO ITALIA

News imagedi Dino Greco (Liberazione del 02/02/2010)
In una luminosa giornata di domenica, Sergio Marra, operaio bergamasco, dopo essere stato licenziato in tronco, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco, uccidendosi. In un modo orribile. Sergio non si è spento silenziosamente. Il suo è stato un grido acutissimo, in faccia a una violenza insopportabile. Ora vi sarà chi, prima di consegnare all’oblio questa tragedia, spiegherà che non si può mai sapere quali siano le ragioni reali di atti come questo e che è riduttivo attribuirne le cause alla sola perdita del posto. Chi disinvoltamente pontifica in questo modo ha di solito le terga ben al caldo, non ha la più pallida idea di cosa significhi – materialmente e socialmente – essere deprivati dei mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia e, ad un tempo, essere spogliati della propria identità, della speranza stessa in una via di uscita.

La morte di Sergio parla anche a noi, della sua solitudine disperata, di un calvario che riflette una condizione collettiva condivisa in sorte da tante persone. E della sciagurata irresonsabilità con cui chi comanda continua a sottovalutare, a nascondere, la gravità della crisi, esimendosi da qualsiasi iniziativa di contrasto.
Fatti come questo bucano l’impersonale asetticità delle percentuali, delle statistiche con le quali si prova a dar conto di ciò che accade. E raccontano che c’è un pezzo di società – esseri umani in carne ed ossa – che va in rovina. Se ne ha davvero contezza? Se ne comprendono le proporzioni? Guardate che non c’è solo la disoccupazione conclamata. C’è quella precaria non censita. Poi c’è quella mascherata dalla cassa integrazione che, in gergo, si definisce a perdere, quella propedeutica alla collocazione in mobilità e non alla reintegrazione nel posto di lavoro. Poi c’è quella che non risulta perché, ufficialmente, chi lavora due giorni la settimana, o una settimana al mese, è computato fra i lavoratori in attività, anche se fa la fame. Inoltre, dentro la crisi, anche le aziende che si ristrutturano mutano pelle: all’espulsione dei lavoratori con maggiore anzianità e mediamente più protetti subentra l’ingresso dei forzati della precarietà. Un esercito di lavoratori interinali, a progetto, somministrati, occasionali, a chiamata, privi di tutele e di diritti. In fondo alla catena, l’ultimo anello, quello del lavoro servile, schiavistico, appannaggio privilegiato degli immigrati.

Ecco, il gesto di estremo autolesionismo di Sergio dissolve l’effetto ipnotico di una rappresentazione mediatica della realtà che più fasulla non potrebbe essere. Ma dice anche – per contrasto – della insopportabile vacuità della politica politicante, del distacco abissale fra la realtà e i dibattiti irretiti dalle geometrie elettoralistiche nelle quali si consumano le sfide politiche.

Mentre il Paese, stremato, non trova risposte. Non ne trova, almeno, la sua parte più debole, che con ogni evidenza deve sfangarsela da sola. Operai sui tetti, giovani e non più giovani, scolarizzati e non, tutti orbati di una prospettiva che abbia un brandello di credibilità. Un cul-de-sac, un corto circuito non solo politico, ma morale.

Servirebbe qualcosa di eccezionale: come drenare risorse dalle sacche di opulenza e impiegarle in un piano senza precedenti di sostegno al reddito e al lavoro. O come disporre il blocco dei licenziamenti, attraverso un massiccio ricorso ai contratti di solidarietà tale da consentire un’immediata redistribuzione del lavoro che c’è. O come ripensare, dalle fondamenta, la presenza, quasi estintasi, della mano pubblica, dello Stato nei settori nevralgici dell’economia, sciaguratamente lasciati in balia degli interessi privati e del mercato, o consegnati all’opacità di un mondo finanziario che si scompone e ricompone attorno ai “soliti noti”.

Per concepire ed operare in controtendenza serve una svolta culturale e politica. E servono i soggetti collettivi capaci di farsene carico. Il paradosso è che se questa strada è occlusa, se la crisi sociale rimbalza su se stessa senza risposte progressive, è fatale lo scivolamento rapido verso soluzioni politiche autoritarie. Scriveva Mario Tronti, qualche tempo fa, che quando si esaurisce la spinta propulsiva di grandi movimenti di trasformazione sociale e politica, quando se ne prosciuga e se ne disperde l’idealità, è la storia remota, profonda, a riemergere dal passato come forza inerziale e a prendere il sopravvento. Che per noi ha voluto dire balcanizzazione; trasformismo, opportunismo. E fascismo.

Il grido disperato di Sergio, suicida col fuoco.ultima modifica: 2010-02-02T21:49:00+01:00da paoloteruzzi
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