Somalia: I veri colpevoli della tragedia

I veri colpevoli della tragedia

 
 
 

Nuruddin Farah, The Washington Post, Stati Uniti

La carestia somala è il frutto di vecchi errori. E se non si prenderanno provvedimenti, rischia di ripetersi ancora.

Da tempo le televisioni di tutto il mondo mostrano immagini che spezzano il cuore: bambini somali malnutriti che, con le pance gonfie, poppano seni scarni senza latte, mentre le mosche gli ronzano sugli occhi. Gli ambientalisti pontificano sulla siccità ricorrente che affligge la Somalia. Le organizzazioni umanitarie bussano alla porta dei ricchi di tutto il mondo in cerca di fondi per dar da mangiare a chi sta morendo di fame. I governi fanno promesse che non mantengono. Intanto la fiumana di profughi che lascia la Somalia per il Kenya sta diventando una marea. Una marea che verrà incanalata nei campi profughi, straripanti di miseria umana.

Un paio di anni fa sono andato a trovare a Mogadiscio il mio amico Abdullahi Mohamed Shirwa, uno dei leader della società civile somala. Si chiedeva se il paese sarebbe sopravvissuto, considerate le circostanze. Una settimana fa mi ha telefonato. La situazione, mi ha detto, era “disastrosa, quasi senza rimedio”. Si chiedeva: “Perché lasciamo che tutte queste persone muoiano di fame, decennio dopo decennio?”.

La catastrofe
Secondo l’Onu, da gennaio quasi 170mila persone sono arrivate nei campi profughi. Eppure questo fiume di esseri umani in fuga è solo indicativo della catastrofe che minaccia una moltitudine perfino più vasta di somali. Parlo di quelli che sono rimasti indietro, quelli tra cui la morte reclama il suo tributo giorno dopo giorno. Sono i più poveri, quelli che hanno un disperato bisogno di aiuto. Un aiuto che molto probabilmente non riceveranno mai, perché le organizzazioni umanitarie non possono raggiungerli. L’accesso è bloccato da Al Shabaab, un gruppo di fanatici vicino ad Al Qaeda che invoca pene divine e dichiara morte alle orde in fuga.

In qualche modo oggi la situazione della Somalia è peggiore rispetto al 1992. Allora, durante la carestia, i signori della guerra tenevano il paese in ostaggio. Milioni di somali si trovarono tra due fuochi e centinaia di migliaia morirono di fame. In risposta alla crisi, gli Stati Uniti mandarono i marines a compiere l’“opera di Dio”, come disse l’allora presidente Geor­ge Bush. Ma si trattò di un intervento inadeguato, una missione incompiuta che ha portato alla calamità di oggi.

L’azione militare statunitense del 1993 in Somalia si concluse con la morte di 18 americani. Alcuni criminali vicini al signore della guerra che gli americani stavano cercando di stanare trascinarono i cadaveri per i vicoli di Mogadiscio. Umiliati, gli Stati Uniti batterono in ritirata. Al Qaeda rivendicò l’attacco e cominciò ad andare in giro ad arruolare terroristi, pressoché indisturbata. Cinque anni dopo era già in grado di sferrare un attacco alle ambasciate statunitensi in Tanzania e in Kenya.

Ritirandosi, gli Stati Uniti fecero il gioco di chi ostacolava la pace e, quindi, dei terroristi. L’Onu concesse onori immeritati ai signori della guerra, descrivendoli come leader, invece di trattarli da criminali. I signori della guerra furono invitati a una serie di conferenze sulla riconciliazione nazionale per formare un nuovo governo. Intanto ai somali sembrava che questa svolta inaspettata equivalesse ad affidare un immenso gregge di pecore a un branco di iene. Solo un folle poteva pensare che il gregge non avrebbe subìto danni.

Il mondo sta a guardare
Dopo la partenza degli americani, il resto del mondo si è limitato a guardare, permettendo ai signori della guerra di mettere a profitto le loro azioni criminali. Al Qae­da ha rafforzato la sua presenza. Molte imbarcazioni straniere impegnate nella pesca illegale sono entrate nelle acque territoriali somale e la pirateria è aumentata in modo spaventoso. La vita della Somalia è stata ipotecata da ogni tipo di criminali. Un mondo ideale per far prosperare i terroristi.

Se fossimo stati tanto lungimiranti da prevedere cosa sarebbe successo e avessimo agito di conseguenza, se i marines avessero disarmato i signori della guerra, se il Consiglio di sicurezza dell’Onu avesse emesso subito dei mandati d’arresto per i signori della guerra, impedendogli di far cadere in rovina definitivamente il pae­se, o se avesse almeno affrontato in modo deciso – come aveva fatto in Serbia, Ruanda, Sierra Leone e Sudan – il problema dei signori della guerra che impedivano a milioni di morti di fame l’accesso ai viveri, allora Al Qaeda non sarebbe riuscita a stabilire in Somalia una base operativa da cui sferrare attacchi terroristici in tutta sicurezza. Il nostro paese non sarebbe stato reso impotente dall’enormità dei suoi problemi né si sarebbe trasformato nel peggiore disastro umanitario del mondo.

Per vent’anni molti gruppi legati a interessi particolari, tutti ostili alla Somalia, hanno stretto alleanze e hanno collaborato per destabilizzare il paese. Il premio Nobel per l’economia Amartya Sen ha spiegato che le carestie sono facili da prevenire e che tendono a sparire nelle democrazie, dove è assicurata la libertà di stampa e c’è una vera opposizione politica. In Somalia non abbiamo niente del genere. Sappiamo invece che la siccità ricorrente deriva dal collasso politico, dal fallimento di una classe dirigente incapace di affrontare le catastrofi incombenti, che spesso impiegano anni a materializzarsi.

Troppo tardi
Quando sopraggiunge la siccità, spesso è già troppo tardi. Durante la mia ultima visita in Somalia, a febbraio e marzo, si poteva già prevedere che sarebbero arrivati tempi difficili, che all’orizzonte c’era una stagione senza piogge. La gente ne scorgeva le avvisaglie nei venti aridi del deserto. Molte persone mi dicevano di essere certe che ci sarebbe stata una carestia. La parola carestia era sulla bocca di tutti a Galkayo, nel centro del paese. I pozzi erano già prosciugati e c’erano frequenti scontri con i nomadi che rivendicavano il diritto di usare l’acqua per abbeverare le loro mandrie.

A tutt’oggi, il mondo ha mosso solo qualche piccolo passo per affrontare la crisi somala. Finora non ha funzionato niente. È ora che il Consiglio di sicurezza denunci la Somalia alla Corte penale internazionale, chiedendo un’indagine approfondita, come è successo per altri disastri umanitari recenti. Solo un processo internazionale può assicurare che sia fatta giustizia e far sì che la Somalia diventi un paese governabile. L’alternativa è che la comunità internazionale si prepari a tornare in Somalia tra dieci o vent’anni. A quel punto, per riuscire a raggiungere i milioni di somali affamati, le organizzazioni umanitarie dovranno negoziare con nuovi gruppi criminali intenti a uccidere la propria gente, sicuri – come in passato – di poter agire impunemente.

Traduzione di Alessandra Di Maio.

Internazionale, numero 912, 26 agosto 2011

Nuruddin Farah è uno scrittore somalo. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Nodi.

 

 

grazie

Somalia: I veri colpevoli della tragediaultima modifica: 2011-08-28T22:20:08+02:00da paoloteruzzi
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