Giuliana
“Abbiamo avuto la sensazione che ci fosse la volontà politica di usare noi poliziotti come merce di scambio. Credo che qualcuno – molto più in alto dei nostri funzionari – abbia voluto farci massacrare, per poter avere dalla sua l’opinione pubblica”. Marco (il nome naturalmente è di fantasia) è uno dei duemila uomini schierati domenica scorsa dal ministro Maroni a tutela del cantiere dell’Alta velocità in Val di Susa. Accetta di parlare perché la delusione per quanto accaduto è troppo grande. “Eravamo arrivati nella valle da qualche giorno – racconta Marco –. Il pericolo si fiutava nell’aria, ma le disposizioni erano già molto chiare: aspettare, presidiare la zona, non partire per primi e avere in ogni caso reazioni non aggressive”.
L’ordine pubblico, dopo il G8 di Genova dieci anni fa e l’istituzione della scuola di Nettuno (voluta dal capo della Polizia, Antonio Manganelli), dovrebbe essere sempre come lo descrive Marco. Eppure qualche schema, domenica, sembra essere saltato: “La prima cosa da presidiare sono le vie d’accesso – prosegue il poliziotto –. Se se ne lascia una libera e favorevole a chi deve attaccare, è chiaro che l’attacco arriverà proprio da lì. E così è stato. Noi abbiamo atteso per ore, poi ci hanno fatti uscire allo scoperto su un unico spiazzo: ci siamo trovati di fronte ai manifestanti scesi dalla montagna che ci tiravano di tutto”. Una strategia che è costata alle forze dell’ordine, e quindi allo Stato, oltre duecento feriti. “Sarebbe bastato andare indietro e tenere il fronte coperto: non sarebbero entrati, oppure li avremmo presi tutti. Invece ci hanno esposto e i motivi sono chiari da comprendere. La polizia fa quello che le si chiede di fare, le direttive vengono da molto più in alto”.
Marco non è certo nuovo alle manifestazioni e sa bene quali rischi si corrono: “I manifestanti sono lì e ce l’hanno con noi, a prescindere dal colore politico che rappresentano. Ti aspetti anche la violenza, loro fanno la loro parte e noi la nostra. Quello che non ti aspetti è che ci sia la volontà politica di usare noi come merce di scambio: facciamo massacrare i poliziotti così l’opinione pubblica è dalla nostra parte”. Secondo questa logica poteva andare addirittura peggio: “È andata bene infatti – racconta ancora Marco –, ma ora è tempo di interrogarsi: se ci sono duecento feriti vuol dire che qualcosa non ha funzionato. O qualcuno ha sbagliato dal punto di vista operativo, oppure ha voluto tutto questo. Francamente è difficile pensare alla prima ipotesi: volendo, avremmo potuto isolare tutti i violenti”.
Già, i violenti: si è parlato di black bloc, ma il popolo No Tav ne ha smentito la presenza. “C’erano frange non italiane, ma la maggior parte erano facce conosciute. Il bacino sono i centri sociali, personaggi abbastanza noti. Poiché sono stati impiegati reparti e tecnologie specifiche, erano tutti perfettamente al corrente di quello che sarebbe successo. Lo sapevamo persino noi che non avremmo dovuto saperlo”. Marco non è preoccupato, la sua famiglia lo è: “Spero che non sia stata la prova generale per quello che potrebbe succedere tra pochi giorni a Genova, in occasione del decennale del G8. Del resto, proprio dopo la Val di Susa, avendo il favore dell’opinione pubblica, l’atteggiamento e le direttive saranno diverse”.
Intanto ieri si è riunita la commissione italo-francese che avrebbe dovuto ridiscutere la quota dei finanziamenti. L’unico parere favorevole, invece, è arrivato per la realizzazione della tratta in due fasi. Ciò significa che, per la parte da Susa a Torino, è tutto rinviato a dopo il 2023.